PICCOLA STORIA

DELL’ALIMENTAZIONE

Anno scolastico 1997 - 98

Scuola Media Statale

"G. Vinciguerra"

e

Biblioteca comunale

Anagni

classi terze sezioni B - E

a cura delle insegnanti Rita Fivoli e Carla Marotta

ricerche documentarie coordinate dal prof. Giampiero Raspa

SCUOLA MEDIA STATALE "G. VINCIGUERRA" ANAGNI

 

 

Anno scolastico 1997 - 98

 

 

Questa pubblicazione è l’esito di un lavoro di ricerca condotto in questo anno scolastico dagli alunni delle classi III B e III E.

L’iniziativa è nata dall’adesione delle classi al "Progetto lettura" della Biblioteca comunale di Anagni che proponeva un percorso di letture per la scuola media dal titolo "Mangio non mangio" : un tentativo di rispondere ad un bisogno realmente verificato nel territorio, sia nell’attività della biblioteca comunale, come richieste esplicite di materiali sull’argomento, da parte dei ragazzi, sia nella pratica didattica, ove si evidenziano spesso conoscenze parziali ed errate sulle corrette abitudini alimentari e sulle conseguenze psico - fisiche degli errori dietetici.

Gli insegnanti hanno sviluppato un piano di lavoro che ha avuto tre diversi livelli di approfondimento, rispetto al tema scelto : uno di carattere storico, curato dal prof. Giampiero Raspa, uno di carattere psico - sociale, curato dalla prof. Rita Fivoli, uno di carattere igienico - sanitario, curato dalla prof. Carla Marotta.

Le lezioni si sono svolte in gran parte a classi unite.

Il prof. Raspa ha tenuto alcune lezioni sui cambiamenti delle abitudini alimentari nel tempo, come risultano dai documenti degli archivi ed un gruppo di alunni ha condotto una ricerca negli archivi anagnini, documentata nell’ultima parte di questa pubblicazione.

Per quanto riguarda le problematiche adolescenziali, la prof. Marotta ha chiarito agli alunni i cambiamenti che si verificano a livello biologico, mentre la prof. Fivoli ha illustrato le modificazioni che gli adolescenti vivono a livello psicologico e relazionale. In questa fase del lavoro gli alunni sono stati stimolati a scrivere sul proprio vissuto e a comunicare le proprie incertezze e disagi nei dibattiti che hanno sempre seguito le lezioni.

Nell’ambito di queste lezioni sono state chiarite le cause dell’insorgenza delle patologie alimentari nell’adolescenza e gli alunni hanno letto parecchio materiale sull’argomento : articoli di riviste e di giornali, libri forniti dalla Biblioteca comunale, acquistati proprio per questo percorso didattico, contenenti testimonianze dirette.

L’argomento è stato affrontato anche con esperti in una conferenza - dibattito, che si è tenuta il 20 maggio 1998, nella Sala della Ragione del Comune di Anagni , alla quale sono stati invitati tutti gli studenti delle scuole medie inferiori e superiori di Anagni.

La "Piccola storia dell’alimentazione" è nata dall’esigenza di raccogliere in un unico testo, facilmente leggibile per gli alunni della fascia d’età della scuola media inferiore, le molte notizie sull’evoluzione delle tecnologie e delle abitudini alimentari, disperse nei testi didattici, di storia, geografia, scienze ed educazione tecnica in adozione ed in saggio nella nostra scuola.

Gli alunni, guidati dalle insegnanti Fivoli e Marotta, divisi in gruppi secondo l’epoca storica, hanno attuato un lavoro di ricerca, selezione e riscrittura del vasto materiale a disposizione, che ha avuto come esito la presente pubblicazione.

 

 

 

"Cominciamo da un chicco di grano. E’ un esempio semplice, ma straordinario, per capire come la tecnologia (creando più produttività) abbia cambiato il mondo.

Duemila anni fa, ai tempi dei Romani, per ogni chicco di grano seminato se ne raccoglievano quattro.

Ben poca cosa. Soprattutto se si pensa che in realtà i chicchi veramente ottenuti erano solo tre, perché uno era stato usato per la semina.

Questa situazione di bassa produttività agricola è durata molto a lungo : praticamente fino ai tempi recenti. E quando si pensa che il grano (cioè il pane) era la base dell’alimentazione e anche dell’economia agricola del tempo, ci si rende conto di quanto tutto ciò influenzasse il reddito degli individui, le loro fatiche, la loro nutrizione.

E’ solo col Rinascimento che si arriva ad ottenere un chicco in più, passando da 4 a 5.

Ed è solo dopo il Settecento che le rese cominciarono veramente a salire. A metà dell’Ottocento si ottengono 10 chicchi.

A metà del Novecento si arriva a 20. Oggi si riesce ad ottenere più di 30 chicchi di grano per ogni chicco seminato.

Una grande rivoluzione, quindi, dovuta alle invenzioni di coloro che hanno via via trovato la maniera di migliorare le rese.

In questo modo, nel corso degli ultimi cento o duecento anni nei campi si è prodotto di più, è aumentato il reddito, si è mangiato di più.

E sono stati così necessari meno contadini ; e anche meno fatiche.."

 

Piero Angela

da QUARK ECONOMIA

 

 

 

 

 

 

 

sommario

Le tappe fondamentali della storia dell’alimentazione

 

L’uomo cessa di essere nomade, costruisce villaggi e modifica l’ambiente naturale.

Lavora i metalli per ricavarne utensili, sviluppa scienza e tecnica, interrogandosi sulla realtà che lo circonda e cercando di interpretarla e di dominarla.

Il problema della fame diventa meno acuto e aumenta la popolazione.

Progredisce notevolmente il livello di vita e, grazie ai progressi nel campo dell’alimentazione e della medicina, diminuisce la mortalità.

Aumenta la popolazione.

Con l’agricoltura industrializzata oggi la produzione alimentare è concentrata soprattutto in Europa, America del nord ed Australia. Questi paesi sono grandi esportatori di prodotti alimentari. Il problema della fame, che fino al XIX secolo interessava tutti i continenti, Europa compresa, oggi è ancora acutissimo nei paesi sottosviluppati (America del Sud, Africa, Asia) dove la produzione agricola è scarsa e i mezzi per acquistare alimenti d'importazione sono insufficienti. Si assiste così ad un aumento delle malattie da carenze alimentari nei paesi sottosviluppati e contemporaneamente ad un aumento delle malattie da abbondanza di nutrizione (obesità, diabete, ipertensione, infarto, tumori, bulimia, anoressia) nei paesi industrializzati.

 

La storia dell’alimentazione inizia con la storia dell’uomo

’alimentazione umana è un fatto culturale che gli storici studiano con sempre maggiore attenzione. La storia si scrive anche a partire dalle tavole da pranzo o dalle cucine, dal focolare sotto una tenda, da un braciere davanti ad una capanna. La storia degli uomini è anche quella del loro cibo : non soltanto dei modi in cui essi hanno risolto, nei millenni, il problema della sopravvivenza, ma anche dei gusti, delle ricette, della fantasia che vi hanno profuso.

La storia dell’alimentazione inizia dunque con la storia dell’uomo, a partire dalla sua comparsa sulla terra, che risale ad almeno 4 milioni di anni fa.

La ricostruzione delle abitudini alimentari dei nostri antenati parte dallo studio dei reperti fossili e dei manufatti trovati nei siti archeologici : gli scheletri degli ominidi, i pollini fossili, le ossa degli animali cacciati, gli strumenti usati, i resti di antiche dimore. Lo studio della dentatura dei crani fossili, ad esempio, è molto importante per capire le abitudini alimentari delle varie specie di ominidi. Gli Australopitechi avevano delle macine adatte a masticare i vegetali, mentre l’Homo abilis presentava una disposizione e una forma dei denti più adatta alla carne. Inoltre l’analisi al microscopio dei denti (cioè dei graffi, delle incisioni, dell’usura, delle malattie) permette di ricostruire con buona precisione la dieta preferita dei nostri antenati. Le dimensioni dei denti si sono progressivamente ridotte nel corso dell’evoluzione umana. Ciò è probabilmente dovuto ai continui miglioramenti nella preparazione dei cibi che non dovevano più essere masticati con vere e proprie "macine" (fig.1).

Prima della scoperta del fuoco l’attività principale per procurarsi il cibo era la raccolta di tutto ciò che l’ambiente offriva per sopravvivere.

Quali erano gli alimenti di questi primi uomini ?

Devono trascorrere ancora centinaia di anni prima di arrivare ad uomini esperti cacciatori di animali feroci e di grossa taglia : mammiferi, uccelli, pesci.

L’uso del fuoco segnò un’importante fase evolutiva nel corso della storia dell’alimentazione, in quanto permise di

Fig.1

 

Dal cibo al pensiero

 

Homo erectus 1,5 milioni di anni fa

Scoperta ed uso del fuoco

 

 

Cottura dei cibi

 

 

Cibi più teneri, masticazione più facile

Riduzione della muscolatura masticatoria

 

Modificazione del volto

con progressiva scomparsa della "cresta" frontale

e riduzione della superficie dei molari

e della dimensione dei canini

 

Aumento di volume del cranio

 

Sviluppo del cervello e delle funzioni cerebrali superiori

 

 

 

introdurre nella dieta quegli alimenti che richiedevano un procedimento di cottura, che li rendeva più digeribili e gustosi. Per la bollitura si usavano recipienti fatti di corteccia fresca o stomaci di ruminanti appena uccisi che, essendo umidi, non bruciavano, o cavità della roccia riempite d’acqua, portata all’ebollizione per aggiunta di pietre roventi. Le carni ed altri alimenti erano arrostiti su pietre infuocate o cotti sotto la cenere. Un po’ più tardi comparvero grandi spiedi fatti con ossa di mammut e spiedi più piccoli fatti con rami verdi ed umidi. In ogni modo i cibi disponibili dovevano richiedere un'intensa masticazione, come testimoniano le superfici logore dei denti fossili ritrovati.

I primi cacciatori, 450.000 anni fa, attuavano una caccia opportunistica : uccidevano prede di piccole dimensioni e poco veloci, senza trappole né armi. Nel Paleolitico inferiore, invece, l’uomo diventò un abile cacciatore di animali di grandi dimensioni : orsi, elefanti, mammut, cervi, cinghiali, buoi e capre selvatiche, cavalli e renne. Gradualmente gli uomini cominciarono ad attuare trattamenti di conservazione delle grandi quantità di carni cacciate ed impararono la tecnica dell’affumicamento (fig.2). Alla raccolta di tuberi, radici e semi, praticata con attrezzi più adatti, seguirono i procedimenti di pestatura, trituratura e cottura.

 

Per tutto il Paleolitico dunque l’alimentazione umana fu prevalentemente carnea e la raccolta di frutta e radici forniva una valida integrazione alla dieta.

La vita di cacciatori - raccoglitori costringeva gli uomini a spostarsi continuamente per seguire i branchi di animali : erano nomadi.

L’età successiva, detta Mesolitica (età della pietra di mezzo 20.000 - 10.000 anni fa), fu un periodo di passaggio : l’uomo a poco a poco passò a forme di vita sedentaria.

Circa 12.000 anni fa ebbe termine l’ultima glaciazione e la scomparsa dei ghiacciai provocò dei profondi mutamenti ambientali. In questo periodo si formarono i deserti del Sahara e della penisola Arabica. L’avanzata del deserto costrinse le popolazioni ad emigrare e a concentrarsi in zone ristrette, attorno al delta del Nilo e al bacino fra il Tigri e l’Eufrate. In questa situazione la caccia era diventata insufficiente per la scomparsa di molte prede. L’uomo cominciò ad attingere alle risorse acquatiche, in particolare con la pesca dei molluschi. Risalgono al Mesolitico l’invenzione dell’arco per la caccia degli uccelli e dell’arpione per la pesca di grandi pesci.

 

 

 

 

La rivoluzione neolitica

 

irca nel 9000 a.C. si hanno i primi segni di una produzione di alimenti nell’Asia sud - occidentale, in Mesopotamia, in una zona compresa tra i monti Zagros e le coste del Mediterraneo Orientale, detta "mezzaluna fertile" (fig. 3).

La rivoluzione neolitica consiste appunto nel progressivo sviluppo di tecniche per la produzione di alimenti (agricoltura e allevamento), in sostituzione delle tecniche di semplice sfruttamento (caccia e raccolta) del cibo esistente in natura. Le piante di grano ed orzo, fino ad allora cresciute allo stato selvatico, cominciarono ad essere oggetto dell’attenzione e della cura dell’uomo. Furono probabilmente le donne ad inventare l’agricoltura : osservarono come dal fiore nascesse il frutto e dal seme si riproducessero le piante. Così forse piantarono in terra alcuni semi, questi germogliarono e diedero frutto. Impararono a non consumare subito tutto il raccolto, ma a destinarne una parte per le semine successive e un’altra come riserva di cibo per i periodi di carestia. Carni e cereali rendevano l’alimentazione più varia : la salute migliorava e la popolazione umana cominciava a crescere.

I cacciatori capirono anche che non conveniva uccidere tutti gli animali catturati, ma era meglio tenerli in un recinto. Avevano inventato una specie di dispensa vivente, cui ricorrere quando la caccia risultava infruttuosa. Impararono a curare i cuccioli degli animali e ad addomesticarli (fig. 4).

Gli uomini erano diventati allevatori e, oltre a carne e cereali, ora mangiavano anche formaggi di pecora e di capra e uova.

Le specie di cereali conosciute erano diverse in distinte zone della terra, dove l’agricoltura si sviluppò indipendentemente : frumento, miglio, orzo, avena, segale, in Medio Oriente ; riso, lungo i bacini del Gange - Brahmaputra in India e dello Yangtse in Cina ; mais, lungo i grandi fiumi dell’America.

Nel giro di circa un millennio l’uomo fu in grado di coltivare varietà di cereali più produttivi di quelli selvatici, ma che avevano bisogno delle cure degli agricoltori. Usando un falcetto fatto come diecimila anni fa, con pietre affilate incastrate in un manico d’osso, un botanico dei nostri giorni ha dimostrato che un solo uomo può ricavare, in un’ora di lavoro, quasi tre chili di grano. Ciò significa che una famiglia di quattro persone poteva raccogliere in tre settimane una tonnellata di cereali, e quindi una provvista sufficiente a sfamarsi per un intero anno. Niente di paragonabile ai risultati di tre settimane di caccia e raccolta, che fornivano esattamente cibo per tre settimane e non di più.

La scoperta dell’aratro (4.500 a.C.) portò ad un’enorme evoluzione dell’agricoltura, perché si ebbero raccolti più abbondanti, sia per la maggior lavorazione del terreno, fatta anche con l’aiuto di animali da traino, sia per la maggiore estensione delle coltivazioni, sia grazie alle nuove tecniche d'irrigazione dei terreni.

Nell’Europa orientale, nel tardo Neolitico, la lavorazione dell’argilla, l’industria della ceramica, del legno e dell’osso erano già esistenti, come testimonia il ritrovamento di bicchieri, piatti, ciotole ed altri recipienti per conservare i cereali. Con questi prodotti si avviarono scambi commerciali con popoli vicini. Il commercio influì di certo positivamente sulle abitudini alimentari, permettendo un notevole miglioramento delle tecniche agricole e di allevamento e una maggiore varietà di alimenti animali e vegetali. Grazie ad incroci di varie specie, verso la fine dell’età del bronzo, la dieta si arricchì di altri due alimenti : l’olio d'oliva ed il vino. Al periodo Neolitico risalgono anche i primi tentativi di preparazione di gallette, simili alle nostre piadine, ottenute con cereali seccati e macinati in modo rudimentale e cotte su pietre roventi, ma è l’età del bronzo che testimonia la grande conquista della lievitazione del pane, quasi sicuramente presso i Sumeri. Si deve a loro la comprensione dell’uso dei cereali selvatici per la panificazione : bisognava innanzi tutto separare la parte commestibile del chicco dalla crusca. Si scoprì che questo poteva essere fatto arrostendo leggermente i granelli finché si staccasse la crusca. Un altro passo importante fu compiuto aggiungendo un po’ d’acqua alla farina ottenuta dalla loro macinazione, in modo da ottenere un impasto che potrebbe ricordare una polenta consistente.

Con la scoperta dell’agricoltura e dell’allevamento gli uomini diventano definitivamente sedentari.

Da allora l’uomo ha potuto veramente dominare la Terra, trasformandola con l’impronta della sua intelligenza, facendone un paesaggio ricco di campi, foreste, strade, case e città.

 

Le grandi civiltà fluviali

 

’arco di terre che dal Golfo Persico risale lungo le valli del Tigri e dell’Eufrate, fin alla valle del Nilo, costituisce il territorio detto della "mezzaluna fertile". Nella zona, percorsa da lunghi fiumi, si estendono l’Egitto e la Mesopotamia, i territori dove si svilupparono antiche e progredite civiltà.

I popoli mesopotamici, come gli Egizi, per garantirsi i mezzi di sussistenza, praticarono per primi le attività agricole. Fin dal IV millennio a.C., infatti, non si limitarono più a seminare ma impararono a lavorare la terra, a sfruttare le piene dei fiumi e a costruire argini e canali, attraverso i quali scorreva l’acqua che andava a fertilizzare i campi. Così il deserto, che prima si estendeva ai lati del Tigri e dell’Eufrate, divenne gradualmente una pianura rigogliosa, capace di produrre grandi quantità di ortaggi, grano ed orzo.

Quest’ultimo cereale era particolarmente importante : con l’orzo si faceva il pane e si produceva una bevanda simile alla nostra birra, molto usata in Mesopotamia. L’orzo serviva anche come unità di misura negli scambi commerciali e svolgeva la stessa funzione che ha oggi il denaro.

Molti dipinti e antiche statuette egizie c'illustrano l’attività dei contadini di quei tempi così lontani : essi zappavano la terra usando un arnese molto lungo ; usavano, dopo la semina, per rincalzare il terreno, un piccolo aratro di legno, sufficiente a smuovere superficialmente la terra ; mietevano l’orzo e il grano tagliando le sole spighe con un falcetto ; provvedevano alla trebbiatura con l’aiuto di asini e cavalli, che girando in tondo, pestavano le spighe disposte sull’aia, separando così i chicchi (fig. 5), frantumavano i chicchi nel mortaio ; preparavano il pane e la birra con l’orzo. E’ facile immaginare come, con strumenti così rudimentali, le coltivazioni costassero grandissime fatiche e tempi lunghissimi di lavoro.

Fu nell’antico Egitto che si scoprì un nuovo tipo di frumento al quale, una volta triturato, venivano aggiunti vari tipi di lievito : l’impasto così ottenuto poteva lievitare prima della cottura in modo sufficiente per renderlo più leggero e appetitoso. Il maggior consumo di pane fu accompagnato dallo sviluppo delle tecniche per macinare il frumento. Dapprima il grano era triturato spingendo su una pietra una specie di mola che assomigliava ad un mattarello. La costruzione delle macine a rotazione permise invece lo sfruttamento degli animali, che continuando a girare, permettevano ai mugnai di macinare grandi quantità di prodotto, praticando un’attività molto redditizia.

Se abbondante era la produzione agricola in pianura, ampie zone erano destinate ai pascoli

sugli altipiani circostanti. Greggi numerose di pecore e capre erano allevate sia per i prodotti destinati all’alimentazione, sia per la lana.

Il pane e la birra erano la base dell’alimentazione. Selvaggina e pesce di palude, innaffiati di vini pregiati, erano i cibi usuali delle mense dei ricchi ; i poveri si accontentavano di farinate d'orzo, pesce, ortaggi e cereali. La frutta era varia ; erano però particolarmente consumati datteri e fichi, che servivano anche alla preparazione dei dolci.

 

L’alimentazione presso i Greci

 

in dall’antichità, le caratteristiche geografiche della Grecia ostacolarono l’espansione dell’agricoltura. Le montagne coprono circa l’80% del territorio, le pianure sono rare e scarsamente irrigate da brevi corsi d’acqua ; il clima, piuttosto arido, e il tipo di roccia, che in molti casi non trattiene l’acqua piovana, rendono il terreno poco fertile.

Le uniche coltivazioni adatte alle condizioni ambientali erano il fico, l’ulivo e la vite, che garantivano una produzione d'olio e vino sufficiente anche all’esportazione. Nelle pianure si coltivavano i cereali, ma la loro ridotta estensione impediva comunque di produrne in quantità sufficiente per tutti gli abitanti. Per questo fin dal VII secolo a .C. i Greci ricorrevano ad importazioni di grano dall’Oriente e dalla Sicilia.

Omero, che descrisse la società greca arcaica (VIII - VI sec. a.C.), di tipo agricolo - pastorale, racconta di lunghi banchetti dei suoi eroi, i cui alimenti fondamentali sono pane, vino e carne di uno o più animali, ovini o suini, arrostita al fuoco su lunghi spiedi e salata.

Nel V e IV sec. a. C. la Grecia diventò il centro dei traffici commerciali del Mediterraneo. L’economia non era più basata esclusivamente sull’agricoltura e sull’allevamento ma sui traffici commerciali con l’oriente e l’occidente ; di conseguenza cambiarono anche i costumi alimentari.

I cibi principalmente consumati divennero il pesce, i cereali, i legumi e soprattutto le verdure : lattuga, malva, cavoli, cipolle, aglio, conditi con olio e aceto o con una salsa di pesce assai piccante, detta "garon". Perciò un poeta comico chiamò i Greci "mangioni di pesce", "mangiatori di foglie" e "di pasto frugale".

Così nella Repubblica di Platone, è descritta la dieta ideale : "Nutrimento sarà farina d’orzo di frumento. E parte ne cuoceranno al forno ; parte ne faranno pasta, buone focacce e buon pane che potranno poi servire su canne o su foglie pulite...(e come companatico) ... sale, si capisce, olive e formaggio, cipolle e verdura. E tutto cucineranno alla maniera campestre. Ma poi, è evidente, concederemo fichi gustosi e ben confezionati, ceci e fave. Inoltre arrostiranno al fuoco coccole di mirto e di faggio, per eccitare il desiderio di bere in giusta misura."

(Platone, Repubblica, II, 372 b - c)

I cibi più spesso ricordati nella letteratura greca sono le "maze", focacce di farina d’orzo impastata con acqua o vino od olio, e a volte anche con miele e con latte.

"Presso gli Ateniesi è detta fusté la focaccia non troppo impastata, c’è anche quella a forma di palla e la cosi detta achillea, forse fatta con orzo di Achille. Ci sono le maze con la lattuga e quelle impastate col miele o col vino." (Ateneo, III, 114 f, 115 a -b)

Ogni altro cibo che non fosse pane o focaccia, era chiamato "opson", cioè companatico. Con questo termine s'indicavano i cibi vegetali ed animali, e anche il sale.

La carne compariva di rado sulla mensa dei più ricchi ; i poveri trovavano l’unica occasione per mangiarne nei giorni in cui si sacrificava agli dei, a spese pubbliche, un animale, del quale i presenti consumavano una parte.

Anche se consumata raramente, la carne era preparata in modo raffinato.

"E quando vi hanno preso (si rivolge agli uccelletti) vi vendono tutti insieme : e chi vi compra, prima vi tasta. E neanche - che idea ! - vi servono subito dopo avervi arrostiti, ma vi cospargono di cacio grattugiato, di olio e di aceto ; quindi vi preparano nel mortaio una salsa dolciastra e untuosa e ve la versano addosso bollente." (Aristofane, Uccelli, vv. 529 - 537)

I Greci conoscevano anche quasi tutte le qualità di frutti che conosciamo noi, ma erano ghiotti specialmente di fichi, dei quali il territorio era ricchissimo.

C’erano delle differenze nelle abitudini alimentari, legate non tanto alla produzione economica, quanto al sistema di vita sociale.

A Sparta, per esempio, tutti i cittadini dovevano radunarsi per consumare in comune i cibi stabiliti dalla legge e lo stesso pane. La legge spartana limitava fortemente il piacere privato e proibiva di pranzare a casa, distesi su coperte lussuose, davanti a tavole ricche. Quanto alle pietanze, la più apprezzata dagli Spartani era il "brodo nero", piatto disgustoso per gli stranieri, fatto di cinghiale cotto nel sangue con sale e aceto. Pare che un re del Ponto, per gustare questo famoso brodo, comprò un cuoco spartano, ma alla prima cucchiaiata sputò. Il cuoco gli disse allora : "O re, per trovare buono questo brodo bisogna essersi bagnati nell’Eurota."

Ad Atene, invece, mangiare da soli era considerata abitudine da contadini. Poiché il pranzo di mezzogiorno non era un vero pasto, ma piuttosto uno spuntino, di sera gli uomini si ritrovavano in un banchetto che durava fino all’alba. Intorno ai tavoli imbanditi erano disposti letti ampi, con cuscini, sui quali ci si sdraiava, allungando le mani per raggiungere il cibo e pulendosi con la mollica del pane o con acqua profumata. I coppieri facevano la spola tra i commensali e il grande cratere del vino, riempiendo le coppe. Il vino era la bevanda per eccellenza, consumata in ogni momento e in gran quantità, ma di solito allungato con acqua, a causa della sua forte gradazione alcolica.

"Con un pezzetto di focaccina ho cenato, ho bevuto un’anfora di vino...Su, passami il cratere, o fanciullo, voglio bere a garganella : Mescola dieci parti di acqua e cinque parti di vino..." (Anacreonte)

Dopo il banchetto iniziava il Simposio, la bevuta in compagnia, durante il quale non mancavano musica e danze, giochi e scherzi, ma a volte gli amici s'impegnavano anche in discorsi letterari e filosofici (fig. 6).

Molte di queste abitudini alimentari entrarono a far parte del costume romano.

 

 

 

L’alimentazione presso i Romani

 

nticamente la valle del Tevere era circondata da vaste pianure e tutta la zona presentava una ricca vegetazione di tipo mediterraneo, popolata da animali selvatici. Gli ampi pascoli consentivano di allevare suini, bovini, e ovini, che fornivano carne, latte e formaggi. Queste terre affacciate sul Mediterraneo offrivano le condizioni ideali per la coltivazione della vite e dell’ulivo, ma erano poco adatte alla coltura dei cereali che si producevano a prezzo di grandi sacrifici. Cereali, legumi ed ortaggi erano coltivati soprattutto in terreni in pendenza che non trattenevano le acque; il suolo dunque era asciutto, leggero e povero di humus. Per adattare la coltivazione dei cereali al loro territorio e al loro clima, i Romani eseguivano un’aratura molto superficiale, utilizzando un aratro leggero, con vomere di legno, che trascinavano a mano o con l’aiuto dei buoi; in questo modo non esponevano mai al sole le zolle più profonde che rimanevano un po’ umide anche d’estate. Dopo una prima aratura, per rompere ulteriormente le zolle, aravano i campi una seconda volta, tracciando dei solchi perpendicolari ai primi. La doppia aratura e le recinzioni con muretti a secco, fatte per trattenere l’acqua piovana, davano ai campi romani una tipica forma quadrata (fig.7). La mietitura era fatta con falci di diverso tipo; per tagliare, ad esempio, il farro, un cereale dallo stelo molto robusto, usavano una falce dentata con la quale segavano la pianta. Gli steli erano tagliati all’altezza delle spighe e solo in un secondo momento erano estirpati insieme alle erbe infestanti, per ottenere più paglia che serviva per le lettiere degli animali e per i tetti delle abitazioni più modeste. La trebbiatura avveniva battendo le spighe con un bastone rigido, o con un asse dentato, trascinato dai buoi, detto tribulum. Per non impoverire troppo il terreno, i Romani adottavano la rotazione biennale delle colture ma comunque, dopo qualche anno, il terreno perdeva la maggior parte delle sostanze nutritive e doveva quindi essere rimescolato con uno strato più profondo. Questo lavoro lungo e faticoso, era svolto dagli schiavi, e quando questi venivano a mancare, si verificavano cali di produzione così gravi da provocare vere crisi nell’alimentazione.

I prodotti della terra e le greggi erano dunque la ricchezza dei più antichi abitanti del Lazio. Il podere era il centro della vita economica, alle origini.

"Era dagli orti che la gente prendeva le sue provvigioni e quanti mali risparmiava questa frugalità."

(Plinio il Vecchio N.H. libro XIX cap. 19)

"Là vi cresceva la rapa e la bieta, che ha larghe le braccia,

e il raperonzolo e il porro, che nome ha pur anco del capo;

né vi mancava il papavero freddo, che nuoce alla testa,

né la lattuga che bene suol chiudere i lauti banchetti,

né la pesante zucca, che giù, verso il ventre, s’ingrossa.

Senza comprarsi al macello neppure un boccone di carne,

più le cipolle rossicce sfamavano e l’umile porro,

l’acre nasturzio che fa raggrinzire la faccia, l’indivia.

(Appendix Virgiliana, Moretum vv. 75 - 85)

Nel corso del II secolo a.C. nell’Italia centrale e meridionale si diffuse il latifondo. La proprietà divenne più estesa e l’umile dimora delle origini si ampliò. La cucina divenne ampia; attorno al cortile c’erano il pollaio, la colombaia, le stalle dei buoi, dei cavalli e delle pecore. Altri locali servivano per conservare olio, vino, aglio, fieno, frutta. In queste grandi estensioni di terreno la coltivazione dei cereali lasciò gradualmente il posto a frutteti, vigne, oliveti e orti dove si coltivavano fagioli, fave, ortaggi. Nella campagna laziale vi erano quasi tutti gli alberi da frutta che noi coltiviamo, esclusi gli agrumi, che saranno introdotti dagli Arabi, molti secoli più tardi.

L’uso del pane, non lievitato, divenne generale solo in questo periodo ; per i ricchi era di farina bianca e fine (castratus), per i poveri di farro o di farina non setacciata (fig. 8). Nei primi secoli il grano e il farro servivano a preparare la puls, specie di polenta con acqua e sale da accompagnarsi al modesto companatico delle primitive popolazioni.

Quando con le sue conquiste territoriali Roma divenne il centro degli scambi commerciali del Mediterraneo, l’influenza delle abitudini alimentari di altri popoli europei ed orientali determinò l’abbandono della sobrietà di un tempo. Insieme con i tributi delle province, giungevano in città molti prodotti : grano dalla Sicilia, dalla Pianura Padana, dall’Oriente e dall’Africa settentrionale, olio e vino dalla Grecia, spezie dall’Oriente (pepe, semi di sesamo, cumino, zenzero, cinnamomo, noce moscata, zafferano e chiodi di garofano), antipasti dalla Spagna, prosciutti dalla Gallia, ostriche dalla Britannia.

Anche a Roma, come in tutte le civiltà, c’erano profonde differenze tra l’alimentazione dei ricchi e quella dei poveri. Quattro libbre di pane ed una manciata di olive era il cibo quotidiano per il povero e per lo schiavo. Le olive fornivano all’alimentazione un poco dei grassi di cui era molto scarsa; i grassi animali, come il lardo, erano consumati in quantità minime e solo nei giorni di festa. "Fu costume conservare per i giorni festivi le prosciugate spalle di maiale appese ai larghi graticci e servire al parentado il lardo nelle ricorrenze natalizie" (Giovenale, Satira XI)

Nelle umili dimore dei quartieri popolari i pasti si consumavano stando seduti su rozzi sgabelli, intorno ad una tavola di legno comune. Il vasellame era di coccio ed il pasto semplice e frugale : minestre di verdura, e cereali, pesce, raramente carne, molti legumi, formaggio, frutta. Era molto usato il liquamen o garum, una puzzolente salsa di salamoia, di origine spagnola, ottenuta facendo macerare acciughe, sgombri e sale e fatta fermentare al sole per parecchio tempo. Sulla tavola degli schiavi e dei più poveri compariva soltanto la lora, un vinello scadente ottenuto spremendo con il torchio i graspi dell’uva e le vinacce.

Come dolcificante era usato il mosto, che le donne preparavano con cura.

I ricchi Romani a tavola erano invece formidabili ghiottoni, capaci di trascorrere buona parte della giornata a gozzovigliare in modo indecente.

La stanza adibita a sala da pranzo si chiamava triclinium, nome che deriva dai tre letti collocati intorno al tavolo, sui quali i commensali si stendevano per mangiare, secondo un’usanza importata dalla Grecia. Quanto al comportamento a tavola e alle norme di buona creanza, erano in vigore, nel mondo romano, certe consuetudini che ai nostri giorni sarebbero giudicate assai sconvenienti. I Romani gettavano tranquillamente sui preziosi pavimenti di mosaico lische di pesce, ossicini, bucce ed altri rifiuti (fig.9). Spesso gli invitati si portavano da casa i tovaglioli (mappe) per riempirli, come si usava, con gli avanzi della cena. I grandi banchetti duravano molte ore ed erano allietati da tutta una serie di svaghi che l’anfitrione organizzava per tenere allegri i suoi ospiti. Negli ultimi secoli dell’età repubblicana e nell’età imperiale, i pasti giornalieri dei Romani erano tre : la colazione del mattino (ientaculum), il pranzo (prandium), un pasto leggero di mezzogiorno, costituito da un piatto di pesce o carne fredda, legumi o frutta, la cena, il vero pasto importante della giornata che iniziava verso le tre del pomeriggio. Essa comprendeva tre momenti fondamentali. Si cominciava con l’antipasto (gustatio) a base di cibi leggeri, olive, uova sode, funghi, lattuga, ostriche e lumache; in questa prima parte la bevanda di rito era una miscela di vino e miele. Seguiva la cena vera e propria, che comprendeva generalmente tre portate a base di carne e legumi. Le carni più pregiate erano quelle di maiale, di cinghiale, di ghiro; fra la selvaggina c’era il pavone, il fenicottero, il pappagallo, la cicogna, lo struzzo. Ma il piatto preferito dai Romani era il pesce, che compariva su tutte le mense. Mentre i poveri si accontentavano di pesci comuni, conservati in salamoia, i ricchi prediligevano il rombo, la murena, lo storione. Il terzo momento della cena era il dessert (secundae mensae) a base di frutta secca e fresca, confetture dolci fatte con farina e miele, formaggi di varia qualità, ma anche di cibi salati e molto piccanti che inducevano a bere vino fino a notte inoltrata. Il vino si consumava sempre diluito, d’inverno con acqua bollente e d’estate con la neve, raccolta in inverno in montagna ed immagazzinata in depositi sotterranei, coperta di paglia.

"Ci offrirono un maiale intero, circondato da salsicce, frattaglie, barbabietole e pane casereccio... poi una torta con miele caldo, annaffiata con vino di Spagna...Quindi ci trovammo nel piatto un bel pezzo di carne d’orso...Infine ci diedero un formaggio assai tenero, un po’ di mostarda, una chiocciola, un po’ di trippa e di fegato al tegame con le uova...Fecero girare anche un vassoio con olive all’aceto...Arrivati al prosciutto gettammo la spugna."

(Petronio, Satyricon, I sec. d . C.)

I condimenti erano usati in modo assai diverso rispetto ai giorni nostri, tanto che si perdeva del tutto il sapore originario degli ingredienti. Ad esempio, si mischiavano abitualmente i sapori aspri con quelli dolci : la carne poteva essere condita con il miele, il pesce con la frutta, la frutta con il pesce, i dolci con il pepe. Molte ricette tipiche della cucina romana ci sono pervenute attraverso il rifacimento in latino volgare (IV sec. d.C.) di un manuale di ricette intitolato De re coquinaria, scritto nel I secolo d.C. dal famosissimo cuoco e buongustaio Marco Gavio Apicio. Qualche esempio di ricette proposte : ghiro al miele e papavero, struzzo lessato al miele, aceto e salsa di pesce, pollo al pesce, pesce ricoperto di marmellata di mele cotogne, prosciutto al miele rivestito di pasta all’olio, funghi o sedano con miele e pepe, pere condite con salsa di pesce, torta di rose.

 

I doni dei barbari e degli Arabi

 

secoli che vanno dal VI al IX furono un periodo di grave decadenza per l’Europa, in cui si verificò la definitiva caduta dell’Impero romano ed una gravissima crisi economica, alimentare e demografica.

Gli imperatori romani avevano sempre governato con il grano : lo distribuivano gratis per avere il favore della plebe, pagavano col frumento i soldati. Per nutrire Roma occorrevano enormi quantità di rifornimenti alimentari. In epoca imperiale un terzo del grano veniva dalla Spagna, un altro terzo dall’Africa del Nord e un terzo, infine, dalla valle del Nilo, granaio dell’Impero (fig. 10). Quando le province periferiche, proprio quelle che fornivano il grano, caddero nelle mani dei barbari e il mare fu pieno di pirati, tutto questo finì. Molti agricoltori, terrorizzati dalle invasioni distruttive, lasciarono i campi e si rifugiarono nelle città fortificate.

Era pertanto sufficiente un cattivo raccolto per determinare una carestia, perché non esisteva più un’organizzazione statale, in grado di importare grandi quantità di cereali da regioni lontane. E l’Impero romano cadde perché era corrotto, perché era debole, ma anche perché era affamato.

La principale causa del diffondersi delle carestie fu dunque la progressiva crisi dell’organizzazione agricola che si intensificò nel IV e V secolo d. C.

La scienza agricola romana era quasi dimenticata : gli antichi testi erano andati perduti e pochi ormai sapevano leggere il latino ; generazioni di agricoltori erano stati uccisi o cacciati dai campi e la loro esperienza era andata dispersa.

Le frequenti carestie e la scarsa e cattiva alimentazione favorivano lo scoppio di epidemie di peste, lebbra e vaiolo, un’alta mortalità infantile e una breve durata della vita. Le carestie si aggravavano con le guerre e la fame diventava terribile : durante la lunga guerra tra Goti e Bizantini, esseri scheletrici si trascinavano a stento, cercavano radici e scorze d’albero, davano la caccia a topi e lucertole e cercavano di divorare anche l’erba dei campi, morendo di fame o di malattie intestinali.

"Tutti diventarono emaciati e pallidi e la carne loro, mancando di alimento, consumava se stessa...ogni umore veniva meno. La cute asciutta prendeva aspetto di cuoio e il colore fosco, cambiatosi in nero, li faceva parere come torce abbrustolite... Taluni vi furono che, sotto la violenza della fame, si mangiarono l’un l’altro."

( Procopio di Cesarea, VI secolo)

"Una grave carestia colpì in quell’anno tutta la Gallia. Pertanto moltissimi facevano il pane mescolando un po’ di farina con i semi dell’uva e i fiori di nocciolo ; altri , a loro volta, con le radici delle felci ridotte in polvere : altri ancora con l’erba dei campi : Né mancarono quelli che, essendo privi di un piccolo quantitativo di farina, finirono per raccogliere e mangiare erba soltanto : costoro, però, dopo essersi gonfiati, morirono ben presto insieme a moltissimi altri, distrutti dalla fame."

( Vescovo Gregorio di Tours, VI secolo)

"L’inedia spinse gli uomini a mangiare carne umana. Venivano presi in agguati i viandanti, tagliati a pezzi, cotti e mangiati. Alcuni, per fuggire la fame andavano di luogo in luogo e venivano ospitati, ma di notte erano strangolati e divorati dai loro ospiti. Molti allettavano con un frutto o un uovo i bambini e, portatili in un luogo solitario, li ammazzavano e se ne cibavano."

(Rodolfo il Glabro, storico medievale)

 

La decadenza di tutte le attività economiche ebbe sulla popolazione conseguenze gravi, che si protrassero a lungo nei secoli seguenti. Tuttavia le invasioni barbariche non portarono solo devastazioni, ma contribuirono a modificare nuovamente l’alimentazione e le tecniche agricole.

Il passaggio non fu facile : i nomadi Germani adoravano le forze della natura e l’agricoltura sembrava loro sempre un atto di violenza contro la natura stessa. Per garantirsi il favore degli dei cominciavano i lavori agricoli solo di giovedì, giorno sacro al dio Thor, mettevano teschi di cavalli agli angoli dei campi e andavano alla mietitura con la stessa foga che mettevano in battaglia. I barbari erano assolutamente lontani dai nostri gusti e dalle nostre consuetudini : erano mangiatori di carne, il cibo dei forti, poiché dà energia per combattere ed usavano il burro al posto dell’olio. Bevevano un liquido strano, denso e corposo, composto di orzo e frumento che chiamavano cervogia e che più tardi, con l’introduzione del luppolo, si chiamò birra. Ne facevano addirittura una zuppa molto nutriente, mescolandola con il pane.

La birra si diffuse soprattutto nell’Europa centrale e settentrionale. Solo in Italia, terra del vino, essa non ebbe molta fortuna. Tornerà di moda alla fine del Medioevo, all’epoca dei ricchi mercanti e dei Signori, come una bevanda ricercata ed originale. I Germani c’insegnarono l’uso di altre bevande estratte dalla frutta, come il sidro che si ottiene dalla fermentazione delle mele. Ma i barbari resero un buon servizio anche al vino, che i Romani conservavano in anfore di coccio. Gli uomini che venivano dalle foreste erano abili fabbricanti di botti e di altri manufatti di legno : nelle botti il vino si mantenne più a lungo e maturò il suo gusto.

Fondamentali furono anche le nuove tecniche agricole introdotte dai barbari. L’aratro pesante, di origine celtica, aveva il vomere di ferro con due lame sistemate perpendicolarmente, che tagliavano il terreno sia in senso orizzontale sia in senso verticale, ed un versoio che rovesciava le zolle a sinistra e a destra del solco. Rispetto a quello romano, questo aratro presentava il vantaggio di incidere il suolo più profondamente, evitando la doppia aratura e la vangatura (fig. 11). Con il nuovo aratro i campi persero la forma quadrata e divennero rettangolari, così come sono ancora oggi nella Pianura Padana e nel Nord Europa ; la nuova forma nacque dal fatto che, essendo l’aratro molto pesante, i contadini cercavano di compiere il meno possibile la faticosa manovra di fargli cambiare direzione, e quindi preferivano arare dei campi lunghi e stretti, con pochi solchi. Le popolazioni barbariche introdussero anche la rotazione triennale delle colture, che veniva utilizzata dai contadini del Nord Europa. Con questo metodo riuscivano ad ottenere raccolti più abbondanti coltivando ogni anno i 2/3 degli appezzamenti e non la metà, come i Romani, fertilizzando i terreni con le leguminose.

La "rivoluzione verde" del Medioevo fu in gran parte opera degli Arabi, che introdussero, intorno al X secolo d.C., nuove coltivazioni e nuovi alimenti. Le tecniche agrarie degli arabi erano molto più avanzate di quelle europee, soprattutto nella coltivazione degli alberi da frutta e nell’orticoltura. Il territorio della Spagna e della Sicilia fu trasformato ed assunse i lineamenti che ancora oggi osserviamo : le grandi proprietà terriere furono spezzettate, le acque furono incanalate, si diffusero macchine per elevare il livello dell’acqua, pompe idrauliche ed i primi mulini ad acqua e a vento, la terra fu lavorata con cura, furono piantati in abbondanza limoni, aranci, albicocchi, peschi e palme da dattero. Negli orti crebbero nuove verdure saporite, provenienti dall’Asia : asparagi, carciofi, melanzane e spinaci. Gli Arabi coltivavano il cotone ed il gelso per nutrire i bachi da seta. Fecero conoscere lo zucchero, estratto dalla canna, che cresceva bene in Egitto, in Sicilia e in Andalusia. Mangiavano anche il riso, il cereale dell’oriente, e ne tentarono la coltivazione, ma per gli europei esso rimase a lungo un prodotto esotico raro e una medicina : i farmacisti ne facevano decotti rinfrescanti.

Molte parole della nostra lingua sono di origine araba e ricordano ciò che questo popolo ci insegnò : zucchero, albicocca, sorbetto, sciroppo, ribes, pistacchio, alambicco, algebra, alchimia.

Quest’ultima era, fino a due secoli fa, un’attività a metà strada tra scienza e magia, che studiava la trasformazione delle sostanze, oltre che i filtri e i veleni. Ebbene, è agli alchimisti arabi che dobbiamo la scoperta di una bevanda, l’acquavite, e dei liquori che derivano dalla mescolanza di alcool con estratti di erbe aromatiche e zucchero. L’acquavite si ottiene per distillazione ; quest’arte e il suo risultato erano considerati misteriosi e un tantino ... diabolici, anche se i distillati prendevano nomi da fiaba , come : Acqua d’oro, Cielo dei filosofi, Elisir di lunga vita.

 

L’alimentazione nel Medioevo

 

’economia europea, fino alla rivoluzione industriale, fu prevalentemente agricola e le carestie furono fenomeni ricorrenti : la fame fu la protagonista della vita di intere generazioni. La fantasia popolare sognava l’abbondanza e il cibo a disposizione per tutti e produsse in questo periodo i racconti del "Paese della cuccagna", dove gigantesche pentole di gnocchi venivano rovesciate su montagne di formaggio, dove le porte delle case erano costruite con salmoni o aringhe e i campi di grano erano circondati da enormi pezzi di carni arrosto. Si poteva immaginare di raggiungerlo arrampicandosi sull’albero della cuccagna, eretto in piazza per la festa del paese : chi arrivava per primo in cima aveva in premio formaggi e salumi.

L’esigenza del nutrimento era per la popolazione medievale un’ossessione quotidiana. Occorre fare, però, una distinzione tra i secoli precedenti l’anno Mille e quelli seguenti. Vi fu infatti un passaggio graduale da un’economia austera e povera ad un periodo in cui il tenore di vita aumentò e, con esso, migliorarono anche le abitudini alimentari.

Nell’Alto Medioevo l’economia era povera, i prodotti scarsi e gli scambi commerciali molto ridotti. I sistemi di lavoro e gli attrezzi ancora rudimentali ; era necessario il lavoro di molte braccia per produrre l’indispensabile. I contadini dovevano al feudatario o al monastero i prodotti della terra, in parti variabili, secondo il contratto che li legava.

I prodotti alimentari provenivano in egual misura da una cerchia di orti e di campi coltivati attorno al villaggio, da pascoli e campi su cui pascolavano gli animali e dal profondo della foresta dove si raccoglievano funghi, miele e frutti selvatici e dove erano condotti a cercar ghiande i maiali, una ricchezza dell’epoca (fig. 12). Quando andava bene, il modo di mangiare era assai semplice. Il pane bianco, di frumento, per noi così normale, non era quasi conosciuto. Esso veniva fatto prevalentemente col miglio. Nei periodi di carestia, ma non soltanto in quelli, alla farina di cereali si mescolava quella di fave, di lenticchie, persino di vecce, di loglio, di ghiande e paglia o cortecce macinate. Al pane di farine miste si alternavano le pappe di cereali, le minestre di cavoli o di fave secche, qualche uovo, un po’ di cacio, castagne, ma mai tutte queste cose insieme. Era festa grande quando si poteva mettere in pentola un po’ di carne, pollo o maiale o pecora, o qualche capo di selvaggina piccola. Questo tipo di alimentazione produceva moltissime malattie, soprattutto carenze vitaminiche (scorbuto, gozzo, pellagra), dovute alla mancanza di frutta e verdure fresche e a carenze proteiche per lo scarso apporto di carne nella dieta. A queste malattie si aggiungevano a volte vere e proprie epidemie, quando nella farina si trovavano eccessive quantità di loglio (la cosiddetta zizzania), velenosa per l’uomo ; ancora peggio quando si faceva il pane con farina di segale su cui si fosse sviluppato un fungo microscopico, la claviceps purpurea, che determina crampi e contrazioni dolorose e cancrene progressive in tutto il corpo.

La selvaggina importante, cervi e cinghiali, era riservata ai signori, ai nobili. Questi andavano a caccia per allenarsi all’uso dei cavalli e delle armi, dato che la guerra era il loro mestiere, e procurarsi la carne per banchettare con i loro pari. Il popolano che abbatteva un capo di grossa selvaggina incorreva in punizioni spietate, che andavano fino al taglio della mano o all’accecamento. Erano tempi in cui la collocazione sociale di una persona si misurava ... dalla quantità e dalla qualità dei cibi di cui disponeva. I signori feudali non erano " capitalisti", nel senso di accumulatori di ricchezze ; erano invece grandi "consumatori", che accoglievano e nutrivano centinaia di ospiti, di accompagnatori, di protetti. Offrire banchetti e ospitare alla sua mensa molte persone era per il signore feudale un modo per manifestare potere e ricchezza. Alla corte di Carlo Magno e dei suoi successori, coloro che si ponevano sotto il patronato di un potente, venivano chiamati con una parola che, tradotta in italiano, significa "i nutriti".

Le tavole si imbandivano all’aperto, se la stagione lo permetteva, oppure nella grande sala delle riunioni, addobbata per le occasioni. I commensali erano numerosi e le portate abbondanti (fig.13). Si mangiava carne, soprattutto selvaggina, che si lasciava frollare e si arrostiva alle braci, insaporendola con erbe aromatiche (rosmarino, alloro, ginepro) e con le ben più costose spezie che giungevano dall’Oriente. Poiché non esistevano le forchette, ci si arrangiava con le mani e i servi avevano un gran daffare a porgere bacili con acqua profumata per pulirsi le dita. Il vino era del migliore e al banchetto facevano sempre seguito giochi e danze.

Dal X secolo si avviò un processo innovativo : economicamente la terra non fu più la sola fonte di produzione di cibo ed inoltre divenne più produttiva grazie al miglioramento delle tecniche agricole. In Europa si diffusero l’aratro a due ruote, la rotazione triennale delle coltivazioni e l’aggiogamento dei buoi e dei cavalli con un nuovo tipo di giogo, costituito da un collare rigido ed imbottito che faceva pressione sulle spalle dell’animale e non sul collo, in corrispondenza della trachea. Gradualmente si cominciarono a coltivare terreni boschivi e acquitrinosi e si cominciò a fertilizzare i campi con abbondanti concimazioni, che derivavano dai nuovi allevamenti. Un’altra pratica che concorreva a fertilizzare i campi consisteva nel bruciare le stoppie dopo la mietitura o nell’incendiare alberi e sterpi dei territori che si volevano disboscare : la cenere che rimaneva era ricca di potassio e rendeva la terra più produttiva. Nella rinascita economica ebbero un ruolo importante anche le attività dei monasteri : fornivano vino alle città, commercializzarono l’orticoltura, la frutticoltura e l’allevamento del bestiame, diffusero la pescicoltura e l’apicoltura e ogni monastero aveva un suo vivaio. Insomma la produzione di alimenti ebbe un grande impulso. Fondamentalmente la dieta rimase ancora basata sui cereali, ma divenne più ricca di ortaggi e frutta e di prodotti caseari e d’allevamento. Per allontanare la paura della fame e della carestia si diffusero nuove tecniche di conservazione e una maggiore cura dei cibi. Si conservava sotto sale e in salamoia, una soluzione satura di acqua e sale. Si raffinarono le tecniche di essiccazione, di affumicatura e di insaccamento dei salumi (fig. 14). Negli anni del Medioevo e soprattutto durante il Rinascimento si fece un uso folle delle spezie : i menù erano infarciti di pepe, zenzero, noce moscata, cannella, chiodi di garofano, senapi di vario tipo. In un tempo in cui non esistevano frigoriferi, il gusto forte delle spezie non solo rendeva più gradevoli i cibi, ma poteva mascherare il sapore di quelli che cominciavano a deteriorarsi. Da secoli erano i mercanti arabi che controllavano il commercio di queste pregiate mercanzie. Essi le trasportavano per terra e per mare, dai lontani paesi dell’Oriente, dove erano prodotte, fino ai porti del Mar Nero e del Mediterraneo. Qui navi veneziane o genovesi provvedevano a caricarle e a distribuirle in tutta Europa.

Nel XIII secolo l’economia medievale raggiunse la sua massima espansione. Fu una vera "rivoluzione" commerciale; ne furono protagoniste le classi borghesi delle città europee. Con l’avvento del nuovo ceto di ricchi borghesi cittadini, l’arte del mangiar bene divenne una scienza : la gastronomia, con i suoi manuali di ricette raffinatamente elaborate.

Ma nei primi decenni del secolo XIV, una serie di impressionanti catastrofi naturali arrestò l’espansione economica europea : il clima peggiorò rapidamente, ostacolando le coltivazioni e i commerci marittimi e fluviali, piogge torrenziali invasero le regioni del meridione europeo, facendo emergere i danni irreparabili causati dai massicci disboscamenti operati nei secoli precedenti, la terra fertile venne portata a valle, dove creò paludi ed acquitrini. Ben presto la produzione agricola europea divenne insufficiente : dopo oltre un secolo di relativo benessere, ricomparve lo spettro delle carestie e vi fu una nuova crisi demografica. A metà del 1300, un’ultima e più grave sciagura si abbatté sull’Europa : una violenta epidemia di peste uccise trenta milioni di persone in tutta Europa. In questa situazione di crisi i prodotti alimentari divennero rari ed il loro costo salì alle stelle. A pagare pesantemente le conseguenze della crisi economica furono naturalmente i ceti più poveri.

 

L’alimentazione nel Rinascimento : nuovi cibi dal nuovo mondo

 

opo il flagello, la vita come sempre ricominciò e si assistette ovunque ad una rapida crescita della popolazione. La richiesta di cibo portò ad una trasformazione del paesaggio agrario. L’Europa del Rinascimento era ancora ricca di foreste. Si procedette nuovamente al taglio dei boschi, a dissodamenti e ad opere di bonifica. La grande necessità di cibo portò anche all’affermarsi di nuove colture e di nuovi prodotti. Si affermò la coltivazione del riso, giunto in Italia dalla Spagna, dove era stato introdotto dagli arabi. Dal Mar Baltico e dal Mare del Nord arrivavano le aringhe. Sulla loro pesca e commercializzazione costruirono potenza e ricchezza le città della Lega Anseatica. Trattandosi di un pesce molto grasso, l’aringa doveva essere sottoposta a salatura subito dopo essere stata pescata. Quindi la sua lavorazione avveniva sulle navi, durante il viaggio di ritorno.

Le scoperte geografiche trasformarono gli equilibri economici europei immettendo sul mercato nuovi prodotti. I cambiamenti alimentari più importanti avvennero soprattutto dopo la scoperta dell’America.

Sulle tavole degli europei giunse il mais (o granoturco), un cereale che Colombo stesso portò con sé fin dal primo viaggio, insieme con indiani ornati di piume e pappagalli variopinti. All’inizio questo cereale fu accolto con diffidenza benché fosse molto resistente al gelo e adatto a vari usi alimentari. Anche la patata, originaria del Perù, si diffuse lentamente, soprattutto perché non si sapeva bene come cucinarla, ma poi finì per affermarsi e divenne un alimento fondamentale sulla tavola dei poveri e una grande risorsa in caso di carestia.

Dall’America giunsero anche il pomodoro, il cacao, il caffè, le arachidi, i fagioli, i fagiolini verdi, il peperone, il peperoncino, la zucca, l’ananas, le fragole (fig. 15). Fra Europa ed America ci fu uno scambio di animali da allevamento : gli europei portarono buoi, pecore, polli, maiali e cavalli, che gli indiani delle praterie del Nord impararono a cavalcare con grande abilità. Dal Nuovo Mondo giunse in Europa il tacchino.

A loro volta gli europei introdussero in America molte delle piante coltivate in Europa, ma soprattutto crearono, nelle regioni tropicali, ed equatoriali, vaste piantagioni per la coltivazione di quei prodotti che richiedevano climi caldi, come la canna da zucchero, il caffè, il cacao.

La penetrazione dei nuovi cibi nelle abitudini alimentari degli europei fu più lenta di quello che si potrebbe immaginare. Troppo forte era l’attaccamento a usi e tradizioni secolari, troppo difficile accettare in breve tempo la diversità. La patata, ad esempio cominciò ad essere coltivata nei decenni a cavallo del Seicento e Settecento.

Nella stessa epoca le classi ricche cominciarono ad apprezzare le nuove bevande, come la cioccolata e il caffè. Nel Nuovo Mondo la cioccolata era consumata fredda, tiepida o bollente, con l’aggiunta di spezie o di molto pepe. Il cacao, lo zucchero, il caffè e il tè crearono mode alimentari di così grande successo che non accennano a morire dopo ben cinque secoli ; mossero una gigantesca rete di commerci e di industrie ; sconvolsero la vita degli schiavi, obbligati a lavorare nelle piantagioni ; segnarono il destino delle colonie, costrette a produrre cibo per i conquistatori.

 

La rivoluzione agraria del ‘700

 

risi demografiche ed alimentari si ripeterono spesso nell’Europa pre - industriale : in tempi normali la popolazione cresceva di numero, finché non raggiungeva o addirittura superava il limite massimo consentito dalle risorse alimentari. A questo punto ogni minima avversità atmosferica o di altra natura, che riducesse il raccolto, era causa di carestie. A partire dai certi più poveri il cibo scarso e di pessima qualità cominciava a provocare morti per fame o comunque a indebolire il fisico e la sua capacità di resistenza alle epidemie. Queste pertanto si scatenavano con particolare intensità e determinavano un crollo demografico. Fino al ‘700 si verificarono molti momenti di crisi demografica ed alimentare, finché una serie di innovazioni tecnologiche produsse finalmente una profonda modificazione del modo di coltivare. Si trattò di una vera e propria rivoluzione agricola che aumentò la produttività, abbandonando le tecniche di disboscamento e di sfruttamento selvaggio del territorio (fig. 16). Per aumentare le rese dei campi, i contadini inglesi trovarono il modo di coltivare anche quella parte di appezzamenti che, con la rotazione triennale, veniva comunemente lasciata a maggese : sperimentarono che, se invece di lasciarla incolta, la coltivavano con piante foraggere come il trifoglio, l’erba medica o le rape, non solo si fertilizzava il terreno, ma si ricavava anche molto cibo per gli animali (rotazione quadriennale). Disporre di un maggior numero di animali significava poter utilizzare una grande quantità di concime che, sparso in abbondanza sui terreni coltivati a grano, faceva aumentare moltissimo i raccolti. Non solo : un maggior numero di animali significava anche poter utilizzare più carne per l’alimentazione umana.

Questa innovazione del ‘700 contribuì a sconfiggere la grande fame che da sempre affliggeva l’Europa. L’aumento della produzione di grano, insieme con la diffusione delle nuove coltivazioni di mais, patate e fagioli, sconfissero in Europa la fame dei contadini. Cibi dei poveri, cibi delle campagne, dove non esisteva altro che questo. Eppure anche in questo caso gli effetti furono contrastanti : un’alimentazione fondata su un solo ed unico prodotto mancava delle vitamine essenziali e causava una malattia terribile e devastante, la pellagra, che conduceva le persone alla pazzia e poi alla morte. Inoltre le monocolture impoverivano la terra che, periodicamente ha bisogno di riposare, ed erano più esposte ai parassiti : nella coltivazione delle patate si sviluppava infatti la dorifora, un insetto che distrugge le foglie, mangiandole (fig. 18).

La popolazione aumentò notevolmente e, verso la fine del secolo, i contadini divennero troppo numerosi e molti di essi dovettero abbandonare le campagne per cercare lavoro nelle nuove fabbriche di città.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cronologia delle scoperte in campo igienico - sanitario

tra la fine del ‘700 e gli inizi dal ‘900

 

 

microrganismi provocano fermentazioni e le malattie e usa la sterilizzazione per uccidere i batteri

 

La rivoluzione industriale

opo l’invenzione dell’agricoltura, avvenuta circa diecimila anni prima di Cristo, nessun’altra rivoluzione economica ha un’importanza pari a quella industriale. A partire da essa il notevole sviluppo raggiunto in tutte le branche della scienza : in fisica, in botanica, in agraria, in geologia, in microbiologia, in igiene, in genetica, è stato decisivo per il progresso tecnologico alimentare. Essa trasforma i modi di produrre e determina nuove tecniche di lavorazione e conservazione degli alimenti.

La terra è coltivata con nuovi criteri grazie all’uso di macchine agricole e di concimi chimici ed antiparassitari.

I moderni metodi di allevamento permettono una maggiore disponibilità di alimenti animali. Si introducono nuovi alimenti come gli oli di semi vegetali, lo zucchero di barbabietola, la margarina, le paste alimentari, i prodotti in scatola.

Allo sviluppo e al perfezionamento delle tecnologie alimentari dobbiamo conquiste essenziali nella conservazione dei cibi : la pasteurizzazione, il congelamento, la surgelazione, la liofilizzazione.

La prima rivoluzione industriale ha avuto inizio negli ultimi decenni del Settecento in Gran Bretagna, con l’invenzione della macchina a vapore, per poi estendersi, nella prima metà dell’Ottocento, in altri paesi, quali la Francia, la Svizzera, la Germania, gli Stati Uniti e, dopo il 1870, anche nell’Italia settentrionale.

Prima della rivoluzione industriale le uniche fonti di energia che l’uomo era in grado di sfruttare per ottenere lavoro meccanico, erano il vento, l’acqua che scorre e, più importante di tutti, il lavoro muscolare degli animali e dell’uomo stesso. Per secoli gli schiavi furono per la società ciò che è oggi il petrolio per noi. L’industria è nata in seguito alla capacità di utilizzare una nuova fonte di energia che poteva sostituire il lavoro muscolare dell’uomo : la macchina a vapore di Watt è un congegno meccanico che trasforma il calore che si libera bruciando il carbone, in lavoro meccanico. Applicata a diversi settori industriali, essa permetteva di produrre oggetti in un tempo più breve rispetto a quello impiegato dal lavoro manuale dell’artigiano. Produrre tanti oggetti in breve tempo vuol dire produrli in massa e poterli vendere a prezzi più bassi. Vendere oggetti a prezzi più bassi significa che aumenta il numero delle persone che li può comprare. In questo modo la rivoluzione industriale ha fatto arrivare un certo benessere a molti strati della popolazione che prima ne erano tagliati fuori. Così, per esempio, fra il 1790 e il 1840 il prezzo del filo di cotone diminuì di circa venti volte, e ciò permise che l’uso della biancheria intima, prima quasi del tutto sconosciuto, avesse la più ampia diffusione.

Le conseguenze di tali trasformazioni furono straordinarie e comportarono una vera rivoluzione economica e sociale che sconvolse l’organizzazione della società : nacquero numerose fabbriche, che davano lavoro a centinaia di operai, i quali vivevano nei quartieri squallidi e malsani costruiti nelle vicinanze delle fabbriche stesse. Città operaie sorsero nei pressi delle miniere di ferro e di carbone, dalle quali uscivano le materie prime necessarie per costruire le macchine e far funzionare le caldaie a vapore che le muovevano. Migliaia di persone abbandonarono le campagne e si trasferirono, in cerca di lavoro, nelle città industriali e minerarie.

Si distinguono due fasi della rivoluzione industriale :

  1. una prima fase caratterizzata in prevalenza dallo sviluppo del settore tessile, con l’invenzione dei telai meccanici, alimentati dalla combustione del carbone
  2. una seconda fase, avviata intorno al 1830, con un notevole aumento della produzione metallurgica e meccanica, grazie all’utilizzazione del petrolio come fonte energetica per produrre lavoro meccanico ed energia elettrica.

In questa seconda fase lo sviluppo tecnologico ebbe un'accelerazione con nuove invenzioni come il motore a combustione interna, le macchine elettriche e la distribuzione industriale dell’energia elettrica, con nuovi procedimenti in siderurgia, con la nascita della chimica industriale e l’introduzione della moderna organizzazione di produzione in serie.

I documenti del tempo e la letteratura c'informano sulle condizioni di vita pietose degli operai (uomini, donne e bambini) impiegati nelle fabbriche, sulla mancanza d'igiene e di spazio nelle loro "case", sulla povertà della loro dieta.

I quartieri operai erano bui, con le case, una attaccata all’altra e i vicoli servivano anche da fogne. Lo spazio disponibile era inferiore ai 40 metri quadrati per persona. Le uniche fontane con acqua corrente si trovavano nei cortili L’acqua era il veicolo prediletto delle epidemie di tifo e di colera, mentre tubercolosi e vaiolo erano diffusissimi nella popolazione. In Italia, tra il 1835 e il 1911 si ebbero otto epidemie di colera con 700.000 morti.

Il cibo era scarso, spesso guasto e adulterato, immangiabile, come testimoniano alcuni documenti dell’epoca.

"...Il pane che mangio a Londra è un impasto a cui sono stati mescolati gesso, ceneri di ossa, dal gusto orrendo, che ha un effetto distruttivo per la salute." Scrive il dottor Smollet e continua : " ...Il latte è prodotto da foglie di cavolo appassite e da feccia acida, stemperato in acqua calda, fatto spumeggiare con lumache ridotte a minuti frammenti e portato in giro per le strade in secchi senza coperchio."

Ma non si deve pensare che le condizioni igieniche ed alimentari fossero migliori nelle campagne prima della rivoluzione industriale.

A quei tempi, e per molti decenni ancora, l’alimentazione era condizionata dai soldi che le famiglie avevano a disposizione. Il nutrimento abituale dei più poveri operai si componeva di patate, di qualche legume, di minestre magre, di formaggio, di latte o di salumi. L’acqua era la loro unica bevanda durante i pasti. Gli operai che guadagnavano di più si nutrivano meglio : potevano raramente permettersi qualche pezzo di carne, e il mattino una tazza di latte e caffè, mescolato ordinariamente con la cicoria e senza zucchero.

Si pensi che nel 1896, a Torino con £ 0,35 si poteva acquistare 1 kg di pane o 3 hg di carne ed un operaio guadagnava un salario di soli 15 - 20 centesimi al giorno.

Se è vero che il processo d'industrializzazione e la conseguente urbanizzazione provocarono un grave peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, è pur vero che la situazione migliorò presto grazie ai progressi della medicina e alle innovazioni nel campo igienico.

Alla fine del ‘700 furono introdotti i vaccini e pratiche igieniche prima rarissime o sconosciute, come il lavaggio delle mani (la diffusione dell’uso del sapone si deve all’industria Solvay che realizzò un processo per la produzione della soda a bassissimo costo). Intorno al 1860 Pasteur dimostrò che le infezioni erano determinate dai microbi ed inventò un metodo, chiamato pasteurizzazione, per distruggerli con il calore ( fig.17). Nello stesso periodo il tedesco Koch individuò il batterio della tubercolosi che nell’Ottocento determinava la morte di milioni di persone. La coscienza che microbi infetti potevano essere ovunque cambiò molto le abitudini mediche : fino alla metà dell’Ottocento medici e chirurghi operavano senza curarsi della pulizia. Ferri e garze venivano lavate solo con sapone da bucato. Dopo la scoperta di Pasteur si cominciò a praticare la sterilizzazione, che si rivelò fondamentale per la riduzione del tasso di mortalità infantile, che era all’epoca altissimo, più di 200 ogni mille nati, e delle puerpere, che morivano molto frequentemente di febbre puerperale, dovuta alla scarsa igiene con cui era praticato il parto.

Fu inventata l’anestesia, che influenzò decisivamente il campo della chirurgia.

Fra i risultati più significativi della ricerca scientifica si ebbe la commercializzazione dell’acido acetilsalicilico, l’aspirina, nel 1899, la produzione del primo farmaco ottenuto per sintesi chimica, il Salvarsan, nel 1909, la scoperta delle vitamine e degli ormoni nel 1902.

Nei cento anni che vanno dal 1800 al 1900, l’uomo ha avuto più successi nella lotta contro le malattie che in tutte le migliaia di anni precedenti. Prima di questa rivoluzione della medicina la durata media della vita non superava i quarant’anni.

I progressi nel settore agricolo incrementarono la produzione di generi alimentari e riuscirono a fornire un surplus destinato alle città. La produzione di concimi chimici e di anticrittogamici divenne possibile nella seconda metà dell’Ottocento, come sottoprodotto dei nuovi processi di produzione dell’acciaio. Prima di allora gli unici concimi che venivano usati per aumentare la fertilità del terreno, erano escrementi di animali e residui vegetali. I princìpi alla base del funzionamento dei concimi chimici e degli anticrittogamici furono scoperti dagli studi del chimico tedesco Justus von Liebig e resero possibile un grande aumento dei raccolti per unità di superficie coltivata. Non bisogna dimenticare poi l’introduzione delle macchine agricole a vapore e poi a motore, che si diffusero prima negli Stati Uniti e, solo dopo la seconda guerra mondiale, anche in Europa ( fig.19).

All’aumento di produzione di cibo si affiancarono nuove tecniche per la sua conservazione, basate sui princìpi della sterilizzazione e della pasteurizzazione, sull’uso del freddo e sull’inscatolamento, che permisero di immagazzinare grandi quantità di alimenti. La pasteurizzazione del latte divenne d’uso comune dal 1890 circa e dal 1910 si usò il cloro per sterilizzare l’acqua potabile.

L’inventore della conservazione in scatola fu Nicolas Apert che, all’inizio del secolo in Francia, ideò un metodo che consentiva di chiudere carne, frutta e verdure in bottiglie di vetro che erano poi sottoposte ad intenso calore e alla fine sigillate con cura. Il passo seguente e decisivo fu compiuto nel 1812, in Inghilterra, da Bryan Donkin, che sostituì al vetro di Appert il ferro dolce stagnato. I nuovi processi di laminazione della latta diedero il definitivo incremento all’industria dello scatolame, determinando un aumento della vendita dei vegetali dalle 400.000 casse del 1870 ai 55 milioni nel 1914 (fig.21). L’osservazione del fatto che la conservazione dipendesse dall’eliminazione completa dell’aria nelle scatole prima della loro chiusura, fu chiarita definitivamente alla fine del secolo, quando furono universalmente accettate le teorie di Pasteur e si capì che, in effetti, era il riscaldamento che veniva usato per espellere l’aria l’effetto più importante per uccidere i microbi. I primi consumatori di cibo in scatola furono esploratori e soldati, che avevano necessità di portare con sé cibo conservato ; successivamente, con le migliorie apportate, le "scatolette" divennero un prodotto di massa.

Tra il 1830 e il 1840 in Inghilterra si brevettarono macchine per la produzione del ghiaccio, basate sulla compressione dell’ammoniaca anziché su quella dell’etere, abbandonando l’antica tecnica dell’evaporazione. Nel 1867 l’inglese Reece inventò il frigorifero domestico (Fig.20). L’importanza di questa scoperta non è solo da valutare nelle sue funzioni domestiche, pure importantissime, ma soprattutto in quanto permetteva di trasportare qualunque merce su qualsiasi mezzo. Dal 1876 furono usati vagoni frigorifero per portare carne congelata da Kansas City a New York e navi refrigeranti la portavano in Europa. Fin dal 1877 si poterono avere consegne di carne bovina in buono stato dall’Argentina in Europa.

Frutta e verdura entrarono allora per la prima volta nei ristoranti e nelle case borghesi d’Inghilterra, Russia e paesi scandinavi.

Le pesche sciroppate italiane divennero tanto celebri che lo chef francese di un ristorante di Londra le pose a base di un dessert di sua invenzione, dandogli il nome di una famosa cantante lirica dell’epoca : pesche alla Melba. Nel 1877, per la prima volta, si tenne addirittura un banchetto pubblico in cui si mangiò carne bovina, pesce e pollame che erano stati congelati per sei mesi.

Nacque così la dispensa del mondo industriale, formata da paesi che vivono scambiando alimenti, soprattutto frumento e carne, contro prodotti industriali.

La rivoluzione industriale provocò dunque un aumento dei consumi alimentari e un miglioramento del tenore di vita ; in conseguenza di ciò si ebbe nell’Ottocento un forte aumento della popolazione in tutti i paesi industrializzati (dal 1800 al 1850 passò da circa 153 milioni a 216 milioni).

 

La rivoluzione tecnologica del XX secolo

 

egli ultimi cinquant’anni l’uomo è passato dall’uso degli alimenti, così come vengono offerti dalla natura, a preparazioni sempre più tecnologiche. Queste elaborazioni, un tempo svolte in casa o in piccole attività artigianali, sono diventate sempre più organizzate e raffinate e costituiscono oggi cicli industriali di peso economico e tecnologico molto rilevante. Ormai quasi tutti i cibi, prima di essere pronti al consumo passano attraverso due sistemi : quello agricolo e quello industriale.

L’agricoltura è stata del tutto rivoluzionata dall’introduzione delle macchine agricole e dall’uso dei concimi chimici e dei diserbanti.

La meccanizzazione ha del tutto cambiato il mondo dell’agricoltura trasformando i contadini in lavoratori ad alta professionalità e in imprenditori capaci di gestire aziende anche molto complesse. Nelle coltivazioni moderne i lavori sono affidati a macchine, la cui manutenzione richiede un buon livello di capacità tecniche ; non si effettua più la rotazione delle colture perché si ricorre ad un impiego massiccio di concimi chimici che bisogna saper scegliere e dosare ; si evitano le erbe infestanti e le malattie delle piante con i diserbanti e gli antiparassitari ; si utilizzano semi selezionati prodotti dalla biotecnologia genetica. E’ evidente che, in tali condizioni, le rese dei terreni sono ottimali e ciò comporta una larga disponibilità di cibo in tutte le fasce sociali nei paesi industrializzati.

La zootecnia ha fatto enormi progressi nella selezione e negli incroci delle razze, nella scelta e specializzazione del bestiame destinato alla produzione di latte e carne.

Le tecniche di conservazione sono diventate sicure e raffinatissime : basta entrare in un supermercato per accorgersi dell’esistenza di prodotti nuovi e di quanto sia cambiato, nel giro di pochi decenni, il nostro rapporto con i cibi. Cibi surgelati, che si conservano a lungo freschissimi nelle nostre dispense domestiche, i frigocongelatori, cibi liofilizzati ed essiccati, già pronti per essere mangiati, con la sola aggiunta di acqua, cibi venduti sottovuoto per assicurare una migliore conservazione, cibi precotti industrialmente, pronti in cinque minuti con un rapido supplemento di cottura nel forno a microonde (fig. 22). Le trasformazioni industriali degli alimenti offrono molti vantaggi : sono necessarie per rifornire le grandi città, i cibi si alterano più lentamente, presentano buone garanzie di igiene, risultano disponibili per tutto l’anno, spesso costano meno in quanto possono essere prodotti in grande quantità, permettono controlli più facili sulla produzione per scoprire eventuali frodi. Le trasformazioni industriali comportano però anche svantaggi : ogni lavorazione determina la perdita di vitamine e sali minerali, è più alto il rischio che vengano utilizzati prodotti di qualità scadente perché si possono mascherare facilmente il gusto e l’aspetto, aggiungendo additivi chimici, il cui uso comporta inoltre un rischio cancerogeno, ancora non ben conosciuto e quantificato.

Dal secondo dopoguerra in Italia, i consumi alimentari sono complessivamente cresciuti, come in tutti i paesi industrializzati : l’apporto energetico medio della dieta è passato dalle 2000 calorie al giorno a testa alle attuali 3000 calorie, largamente eccedenti rispetto ai nostri fabbisogni. L’alimentazione è migliorata nella quantità, ma è diventata anche troppo ricca di grassi, di proteine animali e di zuccheri semplici e, al tempo stesso, più povera di amido e di fibre (fig. 23). E’ aumentata la disponibilità di cibo proprio quando abbiamo smesso di lavorare faticosamente la terra, conduciamo una vita sedentaria, giriamo in automobile e quindi i nostri bisogni di energia sono diminuiti.

Se da un lato il miglioramento della nutrizione ha determinato

dall’altro lato il grande consumo di grassi animali, contenuti nella carne, nel burro, nella panna e nelle uova, di zuccheri semplici e raffinati, di sale e di alcool è causa delle "malattie del benessere" : il sovrappeso, l’obesità, i tumori, le malattie cardiovascolari, il diabete, la cirrosi epatica, la carie dentaria, i disturbi intestinali, che hanno preso il posto delle malattie della fame e della povertà, frequenti fino a mezzo secolo fa, quando l’Italia era un paese in via di sviluppo e le disponibilità alimentari erano scarse.

Era l’inizio del secolo quando gli italiani consumavano in media 16 kg di carne all’anno (44 grammi al giorno, l’equivalente dell’attuale razione di carne di un nigeriano, più o meno una coscia di pollo al mese).

Appena fatta l’unità d’Italia, venne resa pubblica l’inchiesta agraria di Stefano Iacini (1888), un documento storico di grande valore, che racconta realisticamente le condizioni di vita dei contadini del nostro paese.

"L’alimentazione di gran parte degli Italiani è scarsa e di infima qualità... Strati sociali, in questa o quella zona dell’Italia appenninica e meridionale vedono di tempo in tempo apparire nel loro pasto quotidiano, persino il pane di ghianda..."

Fondamentali nell’alimentazione erano i vegetali : patate, cavoli, fagioli, fave, ma soprattutto la farina di granturco, mangiata sotto forma di pane o di polenta. La polenta, il cibo di salvataggio, l’antidoto contro la fame, stava al centro della tavola : polenta e profumo di saracche, cioè di sarde affumicate, che pendevano dal soffitto e servivano a dare sapore ai bocconi di polenta che venivano "strusciati" su quel ben di Dio appeso.

"A questi cibi, che formano la base dell’alimentazione degli agricoli si aggiungono i seguenti companatici : latticini diversi, e cioè formaggio pecorino per condire le paste, specialmente quello acre e pesante di minor prezzo che s’importa dalla Turchia, e poi ricotte e caciocavalli di basso prezzo, salumi e specialmente baccalà, che è uno dei companatici più usati."

La monotonia e il rigore di questo regime alimentare povero si interrompevano per le grandi occasioni : la nascita di un figlio, il pranzo di nozze, il "reconsolo" che accompagnava la scomparsa di un defunto, il Santo patrono, la raccolta del grano o dell’uva : paste farcite e arrosti, finalmente carne di pollo o coniglio o capretto, pagnotte, frittelle e ciambelle con lo zucchero e vino.

Queste condizioni di vita, soprattutto per le popolazioni del Sud d’Italia che abitavano le terre povere dell’arco appenninico, non sono molto cambiate, almeno fino agli anni Sessanta, gli anni del miracolo economico, come testimonia un’indagine condotta dall’Istituto Nazionale della Nutrizione nel 1954 a Rofrano, un paese di 3000 persone, sulla dorsale appenninica, in provincia di Salerno. Il 50% delle famiglie viveva dei frutti di due ettari di terra dura e aspra, sui quali bisognava seminare un quintale di frumento per ricavarne cinque, con un reddito annuo inferiore alle 100.000 lire. Al censimento del 1951 il 79% delle famiglie risultava sprovvisto dei servizi igienici. Negli anni ’50 un bambino su venti moriva, a Rofrano, nel primo anno di vita. La disoccupazione altissima spingeva gli abitanti al grande esodo : prima verso l’Italia del Nord, poi verso l’Europa centrale e verso paesi di altri continenti (Argentina, Australia). Nel tempo breve di qualche decennio l’Italia è diventata un paese diverso ed irriconoscibile : un mondo rurale e campagnolo è diventato industriale e postmoderno. Non sono tanto cambiati i gusti quanto i ritmi della vita, che diventano sempre più frenetici. Anche a tavola nuovi modelli hanno sostituito quello della società agraria : la famiglia patriarcale è sostituita da quella nucleare, le donne lavorano ed hanno meno tempo da dedicare alla cucina, aumenta la popolazione dei singles, sono frequenti i pranzi fuori casa, si fa la spesa in grandi centri di vendita (fig. 24). La società agraria esercitava un forte controllo rituale sul cibo, le ristrettezze economiche imponevano una scelta limitata dei cibi, il calendario alimentare era in sintonia con le stagioni : c’era una stagione per ogni frutto, i giorni di magro erano fissati e diversi da quelli di grasso, l’ora sesta (mezzogiorno) era dedicata al pasto principale. Un complesso sistema di regole sociali e di buone maniere dava ordine ai comportamenti, al succedersi delle portate, distingueva la festa dalla vigilia, il Carnevale dalla Quaresima. Nella civiltà postagraria ed urbana questo ordine è saltato. Le nuove tecniche di conservazione e di produzione ci consentono di mangiare alimenti fuori stagione, come l’uva a Natale o i mandarini nel mese di maggio.

I giorni della settimana hanno perduto il loro significato speciale : le tagliatelle non sono più la pasta della domenica o della festa, il pesce non si mangia solo di venerdì, la Quaresima è un periodo come un altro. Per noi è più difficile cogliere il valore simbolico dei cibi rituali : le uova, nei dolci pasquali, ricordavano alla società contadina la rinascita che si accompagnava al primo plenilunio di primavera, a noi l’uovo di cioccolato ricorda la "sorpresa". Anche la giornata alimentare è profondamente cambiata : il pasto più importante è la cena, mentre il pranzo è diventato uno spuntino veloce per la maggior parte degli italiani impegnati fuori casa durante la giornata. E intorno a questo spuntino di mezzogiorno si è sviluppato un ampio servizio di ristorazione : paninoteche, mense, self-service, tavole calde, fast-food (Fig. 25). Nelle famiglie italiane si è affermata la cucina svelta, sono cambiate le tecniche di cottura, sono tramontati i piatti che richiedono una lenta bollitura, i ragù, i brasati, i bolliti, per lasciare il posto a grigliati e cibi pronti. I gusti degli Italiani si sono omologati progressivamente a quelli internazionali, allontanandosi sempre più dalle mille tradizioni paesane e regionali della nostra stupenda e variegata cucina, trionfo dei piatti unici ed abile nel riciclare gli avanzi. Soprattutto sono cambiate le regole dell’alimentazione : si può mangiare da soli o in compagnia, seduti a tavola o in piedi, a qualunque ora, liberi dalle costrizioni rituali e dietetiche della tavola di una volta.

Ma questa libertà è anche accompagnata dall’incertezza : siamo da soli davanti alle scelte alimentari quotidiane. Anche se i media ci informano continuamente sull’opportunità di mangiare secondo le regole della moderna scienza della nutrizione e tutti i giorni ci viene indicato come, quanto e cosa mangiare, è molto difficile alimentarsi con equilibrio e diventano sempre più frequenti, soprattutto nei giovani, i disturbi legati ad un modo errato di nutrirsi : sovrappeso, obesità, bulimia, anoressia.

Il nostro secolo è anche l’era delle biotecnologie, cioè delle tecniche basate sulla nuova scienza, la genetica molecolare, che mira ad ottenere, attraverso l’incrocio di diversi individui, animali o vegetali, esemplari migliori, in grado di offrire maggiore produttività e resistenza. Con le tecniche di ibridazione e fusione cellulare, nuove frontiere si aprono e nuove possibilità alimentari si concretizzano : gli scienziati hanno già ottenuto vegetali più resistenti alle malattie e ai parassiti, più produttivi, meno deteriorabili dopo la raccolta e stanno ora lavorando a piante ibride come il pometo ( fig. 26 ). Un percorso affascinante e insieme pieno di rischi, il primo dei quali è credere che la tecnologia possa sostituirsi alla natura.

 

Fame e sovrabbondanza

 

Alle soglie del nuovo millennio, in piena era tecnologica, quello della fame resta uno dei più antichi ed ancora irrisolti problemi dell’umanità. Mentre una minoranza della popolazione mondiale, che vive nei Paesi ricchi del globo, mangia tutti i giorni, anche molto più del necessario, tanto da dover fronteggiare le malattie del benessere, un’enorme parte degli abitanti del pianeta muore letteralmente di fame.

Secondo la FAO e la Banca Mondiale quasi 800 milioni di persone mangiano regolarmente meno di quello che prescrive la "dieta minima critica", ossia meno della quantità di cibo che consente di mantenersi in salute e conservare il peso del corpo. Per stare bene in salute occorre assumere circa 2400 calorie al giorno ; con meno di 1500 calorie si rischia una grave denutrizione, che è la causa sotterranea di molte malattie, soprattutto tra i bambini, che sono più vulnerabili alle infezioni. Ad esempio la mancanza di proteine che si trovano nella carne, nel pesce, nel latte, nei legumi, provoca il Kwashiorkor, una malattia da denutrizione che si manifesta con inappetenza, vomito, diarrea, ingrossamento del fegato e gonfiore dell’addome. Le carenze vitaminiche provocano invece diversi tipi di malattie da malnutrizione, che ostacolano lo sviluppo fisico ed intellettuale e sono all’origine di malattie e menomazioni gravissime. Per la denutrizione muoiono almeno 5 milioni di bambini all’anno. In molti paesi della fame la durata della vita media non supera i 45 - 50 anni, mentre in Italia ha raggiunto i 75 anni.

Se si osserva il cartogramma dei paesi sotto alimentati (Fig. 27), si vede che quasi tutti i paesi della fame si trovano a sud delle nostre nazioni del benessere, nelle zone equatoriali e tropicali. Si potrebbe pensare allora che essa sia originata dal clima, caratterizzato da periodi di siccità eccezionalmente lunghi, quindi dalle conseguenti carestie e dalle calamità naturali che spesso affliggono quei territori. Ma, visto nel suo complesso, su scala mondiale, il problema della fame nel mondo non è tanto un problema climatico, quanto economico. E’ senz’altro un problema di produzione insufficiente, per mancanza d'acqua e di tecnologie agricole moderne, ma è soprattutto un problema di distribuzione e di reddito.

Negli ultimi due secoli è venuto a crearsi un crescente divario economico tra i paesi ricchi del Nord del mondo e gran parte delle nazioni dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Tutti questi paesi, oggi politicamente indipendenti, sono stati in passato delle colonie, soggette alle potenze europeee, che le utilizzarono per lunghissimo tempo solo per ricavarne un’enorme quantità di materie prime, necessarie al loro processo d'industrializzazione. Questo processo di sfruttamento continua ancora oggi, con il commercio ineguale : il Nord del mondo acquista a prezzi "stracciati" le materie prime dai paesi poveri (risorse minerarie, legname, fibre tessili, alimenti), le lavora nel suo sistema industriale, per poi rivendere loro a carissimo prezzo i prodotti finiti ed i servizi.

Le potenti compagnie d’affari multinazionali, che hanno interessi in tutto il mondo, sostengono nei paesi poveri le monocolture (coltivazioni di un solo prodotto), come quelle della banana, del caffè o del cacao, stabilendo i prezzi di queste merci. I paesi poveri sono praticamente obbligati a vendere a qualsiasi prezzo e intanto i terreni agricoli s’impoveriscono sempre più e non producono cibo per le popolazioni locali. Per lasciare spazio alle piantagioni di queste società, molte nazioni sono costrette ad importare quasi tutti gli alimenti necessari a sfamare la popolazione : è il caso, ad esempio, dell’Uganda, che produce quasi esclusivamente caffè ; del Senegal, specializzato nelle arachidi ; del Ghana che produce solo cacao ; dell’America Centrale, quasi tutta occupata da piantagioni di banane.

I paesi sotto alimentati mancano soprattutto di cereali, che sono l’elemento fondamentale di ogni dieta ; invece i paesi ricchi ne producono una gran quantità e li destinano in gran parte alla produzione di mangimi per allevamenti. E’ evidente come questo iniquo sistema economico aggravi sempre più lo stato di sottosviluppo e povertà di questi paesi, che sono in costante debito con gli stati ricchi e sempre più dipendenti dalle importazioni provenienti dal nord del mondo.

Un’altra questione che influisce pesantemente sulla distribuzione dei mezzi alimentari, riguarda il controllo demografico : se la popolazione dei paesi poveri continuerà ad aumentare ai ritmi attuali, le già scarse risorse alimentari diverranno assolutamente insufficienti per garantire anche il minimo di sopravvivenza. E’ evidente il motivo per cui in questi paesi si fanno molti figli : più braccia ci sono per lavorare la terra più alimenti si producono. L’agricoltura è molto arretrata, non meccanizzata, si usano ancora attrezzi primitivi, come l’aratro di legno, non si concimano i terreni ; è un’agricoltura di sussistenza, che rende a malapena il necessario per sfamarsi.

A partire dagli anni 60, in alcuni paesi poveri è stato avviato un processo d'industrializzazione che però, nella maggioranza dei casi, non ha migliorato le condizioni di vita delle popolazioni perché, anche per le industrie, come per l’agricoltura, si è instaurato un meccanismo che opera a favore dei paesi ricchi. Gli stati poveri, pur disponendo di materie prime, non hanno capitali da investire nelle industrie, né quelli necessari a creare strade, acquedotti, impianti elettrici, necessari all’industrializzazione. Inoltre non hanno capacità tecnologiche sufficienti per gestirle perché il loro livello d’istruzione è molto basso. Devono allora ricorrere all’intervento delle società industriali o finanziarie straniere che fondano industrie di basso livello tecnologico, per sfruttare la mano d’opera locale. I salari sono così bassi che nessuno può comprare i beni che produce e tutta la produzione è esportata.

E’ chiaro che le soluzioni di questo problema sono complesse e riguardano tutto il pianeta. Occorrerebbero alleanze tra questi paesi per lo sfruttamento comune delle risorse esistenti, per diversificare la produzione agricola ed industriale. I paesi ricchi dovrebbero cancellare o ridurre molto i loro crediti verso i paesi poveri e, contemporaneamente, dovrebbero inviare forti aiuti economici e tecnologici. Gli interventi più validi saranno quelli che aiuteranno ciascun paese a produrre da sé quanto è necessario, secondo quel vecchio proverbio cinese che dice : "Se dai ad un uomo un pesce lo sfamerai per un solo giorno, ma se gli insegni a pescare lo salvi dalla fame per sempre".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

L’alimentazione nel passato nella testimonianza di documenti degli archivi anagnini

 

Spesso accade che in documenti di vario genere (testamenti, atti notarili, libri di contabilità, ecc.) si trovino notizie di particolare interesse riguardanti problemi relativi all’alimentazione.

Anagni è una città ricca non solo di monumenti, ma anche di archivi. L’Archivio Storico Comunale, custodito in locali del palazzo del comune, è molto vasto: conserva tra l’altro la serie completa, a partire dal 1556, delle Riformanze, ossia dei verbali delle sedute del Consiglio comunale. Un altro archivio molto ricco è l’Archivio Capitolare della cattedrale: vi sono ben 1200 pergamene, oltre a svariati documenti su carta, che ne fanno il dodicesimo tra gli archivi italiani per quantità di pergamene conservate. Vi è poi l’Archivio Storico Diocesano, che ha sede in locali della chiesa di S. Agostino, oltre a molti altri archivi sparsi qua e là, come per esempio quelli di molti conventi maschili e femminili. Insieme col nostro professore di materie letterarie abbiamo visitato più di uno di questi archivi, in modo che abbiamo potuto renderci conto di persona di come sono i documenti antichi e di come questi ultimi vengano conservati e classificati.

Tra i vari archivi anagnini consultati vogliamo adesso parlare di alcuni documenti che abbiamo letto in relazione alla ricerca che stavamo compiendo.

Tra le carte di un archivio privato, quello che raccoglie le lettere e molti altri documenti di un famoso baritono del secolo scorso, Filippo Coletti, ne abbiamo trovato uno veramente interessante. Si tratta di un foglio in cui si parla della qualità del pane e del suo prezzo di vendita. Il padre del cantante, di nome Venanzio, ai primi dell’Ottocento aveva la gestione di un forno; in questo foglio ha perciò lasciato scritto di suo pugno, in un italiano molto espressivo, pieno di errori di ortografia e di diverse espressioni dialettali, quello che egli riteneva più importante per una corretta gestione economica di un forno.

 

Tra le molte pergamene dell’Archivio Capitolare che contengono indicazioni preziose relative all’alimentazione nel periodo medievale, desideriamo parlare di una pergamena dalla quale apprendiamo notizie veramente curiose sulle usanze alimentari del medioevo. Si tratta della pergamena n. 540, del secolo XIII, che è anche stata esposta di recente nella mostra tenutasi in questi giorni in Cattedrale (catalogo p. 49). In essa sono elencati i cibi che il vescovo era tenuto a somministrare ai canonici della Cattedrale in ciascun giorno dell’anno. Riportiamo qualche dato a titolo di esempio: nella mattina di Natale un buon pezzo di carne condita con mostarda e un pezzo di arrosto con salsa pepata, a cena sanguinaccio o truceta e brodo di intestini, piede e testa di maiale, lumellos e lingua di maiale arrosto; il giorno di S.Stefano cinque sollidatos di carni con mostarda e olive; durante la festa della Circoncisione ciò che si è avuto per Santo Stefano e crespelle con salvia; nell’Epifania il solito menù di carne; per la festa di Santa Secondina tutto ciò che hanno ricevuto per Natale; nel giorno di "Sabato grasso" i canonici mangeranno un pezzo di grandezza media di formaggio con cipolle cotte con uova, pepe e zafferano, quattro uova cotte con pepe e miglio ben preparato con latte; la "Domenica di Quinquagesima" si mangerà lo stesso che a Natale, ma la sera anche mezza gallina arrostita; nel giorno delle Palme crespelle, olive e fave molli ben preparate; ogni giorno della Quaresima due portate, cioè olive e cicerchia o fave, e lo stesso in ciascun giorno di digiuno.

 

Per quanto riguarda il secolo scorso, vogliamo ricordare, tra le tante testimonianze che abbiamo incontrato, un documento che si trova nell’archivio del Monastero di S.Chiara. Si tratta di una tabella in cui è indicato il menu settimanale delle suore (fig.28).

Le abbadesse del monastero, nel corso dei secoli, avevano imposto alcune regole che dovevano essere seguite dalle giovani religiose. Una delle regole era che le religiose dovevano ricevere una certa razione di olio per l’illuminazione delle stanze, e l’aceto per il condimento dei cibi.

La tabella di cui stiamo parlando è composta da un grafico in cui sono riportati i cibi prescritti per il pranzo e per la cena.

Da essa possiamo ricavare molte notizie e trarre alcune osservazioni.

Il menù del convento era fissato in modo che ogni settimana si ripetevano i medesimi pasti per ogni giorno della settimana. Ad esempio il sabato mangiavano il pesce, così come il venerdì; il pasto più frequente era la carne da macello e il formaggio.

La scelta di queste pietanze dipende soprattutto da motivi economici più che da motivi alimentari: si trattava di cibi che potevano essere trovati sul mercato con facilità e a prezzi relativamente bassi; spesso erano le stesse suore a produrli, come nel caso delle uova, di alcuni formaggi, dell’olio e del vino.

Il menù era uguale tutto l’anno, tranne che nei tempi di Quaresima, in cui cambiavano completamente i piatti sia a pranzo sia a cena: il piatto che prevaleva era il pesce, perché in molti giorni vi era il divieto di mangiare carne, secondo le usanze che nella religione cristiana cattolica erano in vigore fino a pochi decenni or sono.

A volte ampliavano il loro menù con verdure o legumi. Che nel convento si mangiasse bene non appare tanto strano: per entrare in Convento bisognava appartenere ad una famiglia nobile o per lo meno benestante. Solo in casi particolari, non molto frequenti, troviamo tra le religiose ragazze appartenenti a famiglie più povere. In questo caso le ragazze potevano entrare in convento, ma venivano inserite in una categoria di suore meno importanti nella struttura sociale del convento: venivano chiamate "converse", ed erano dedite ai lavori più pesanti e più umili, come per esempio pulire i locali, fare il bucato, cucinare. Le suore socialmente più importanti venivano chiamate "coriste", perché andavano a sedersi nel coro, su sedili di legno, per cantare, pregare, recitare litanie, assistere alle funzioni sacre. Il Monastero di S. Chiara è uno dei più antichi del Lazio, e le suore ancora oggi sono soggette ad una strettissima clausura: non possono uscire mai fuori del convento, e trascorrono tutta la loro vita dentro di esso.

Da molte testimonianze sappiamo che anche nel convento, come in genere in tutta la società del passato, era diffusa una malattia chiamata "gotta". Questa malattia era presente solo tra le famiglie nobili, perché nei loro pasti era abbondante l’uso della carne, cosa che, al contrario, non appariva nei pasti delle famiglie più povere, che si nutrivano ogni giorno con la stessa pietanza: erba e farro. Questa era una pietanza che saziava, ma che non era completa dal punto di vista alimentare: qualsiasi persona che mangia tutti i giorni la stessa pietanza, e non varia mai i suoi cibi, non assume determinate vitamine, proteine, e altre sostanze necessarie, e quindi nel suo organismo mancano alcuni princìpi nutritivi essenziali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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S. Caglioti - M. Mazzarini - P. Misiti La scienza dell’uomo vol 3 Arnoldo Mondadori 1988

Calvani - Giardina I tempi dell’uomo vol.1 Mondadori

M. Cattano - I. Garbato - C. Santoro Le immagini del progresso vol.1 Paravia Torino 1989

G. Colombo Il cammino dell’uomo voll.1,2,3 De Agostini Novara 1991

G.De Rosa Tempi, spazi, società voll.1,2,3 Minerva Italica Milano 1997

F.Fidanza - G.Liguori - F. Mancini Lineamenti di nutrizione umana Idelson Napoli 1974

C. Longo - G. Longo Dalla cellula alla comunità dei viventi vol.1 Minerva Italica Bergamo 1976

  1. Mezzetti L’uomo dalla natura alla scienza La Nuova Italia Firenze 1987

A.Mola - R. Romano Storia vol.1 Fabbri editori Milano 1991

N. Myers Atlante di Gaia Zanichelli Bologna 1985

C. E. Rol Ricostruire il passato voll.1,2,3 Il Capitello Torino 1996

Sobrero Come si viveva . La vita nella società industriale Paravia Ideechiave Torino1981

M. Ticca Nutrirsi bene per crescere bene Unione nazionale avicoltori Roma 1988

Pietro Ventura I cibi - Evoluzione alimentare nel tempo Mondadori Milano1994

  1. Vegetti - M. Coccino Senso storico voll.1,2,3 Zanichelli Bologna 1981

 

Fonti iconografiche

Le illustrazioni sono tratte dal volume I cibi - Evoluzione alimentare nel tempo Mondadori Milano 1994 e da testi scolastici per la scuola media inferiore.

 

CLASSE III B

 

alessandri cristian

ambrosetti elisa

ansideri mirco

cesaritti roberto

ciocci luca

ciocci stefano

corsi andrea

cutillo luca

di grado alice

di giulio noemi

filippi valentina

frioni jonathan

lupo fabrizio

mastronardi marta

meloni giuseppe

morrea silvia

patrizi giuseppe

rosi fabio

sabatini loredana

salis leonardo

santangeli toni

sordi desiree

spaziani daniela

tabacchiera luciano

vari eleonora

vecchi stefano

 

La ricerca è stata coordinata dagli insegnanti Carla Marotta, Rita Fivoli e Giampiero Raspa

 

 

 

CLASSE III E

 

biondi francesco

boccitto alessandro

cecilia paola

cesari fabrizio

de lellis sofia

fiacco diego

finocchio matteo

finocchio maurizio

lauretti giuseppe

magliocchetti daniele

marinelli simone

minchella luisa

palaggi serena

picchio laura

romiti valentina

salvatori chiara

savone andrea

scascitelli mattia

vecchi simone

viti damiano

viti martina